Letturine 2020 #3

Terza di quattro puntate sulle mie letture del 2020 con tanto di microrecensioni. Trovate la prima qui e la seconda qui.


1 • Città sola, Olivia Laing (Il Saggiatore, 2018). Uno dei miei libri preferiti del 2020. La Laing racconta le diverse sfaccettature della solitudine – da quella dell’era digitale a quella derivata dal non riuscire a stabilire connessioni nel mondo accelerato del postcapitalismo e dell’iperproduttività, a quella di cui si soffre anche quando si è circondati, stimati e apprezzati da un sacco di persone – attraverso le vite di artisti, fotografi e poeti più o meno noti. David Foster Wallace parlava della letteratura come antidoto contro la solitudine e questo libro, questo libro che parla di solitudine, letto in un momento storico in cui la solitudine forzata è la prassi, per me è stato esattamente questo.


2 • La scrittura non si insegna, Vanni Santoni (minimumfax, 2020). Non so se sia un buon manuale di scrittura, perchè purtroppo per i miei problemi con la scrittura a questo punto più che un buon manuale o un buon corso servirebbe un buon terapista, però è di sicuro un ottimo manuale di lettura: la parte della dieta (delle diete, per essere precisi, dal momento che Santoni ne propone diverse) è uno stimolo fortissimo a sfidare sè stessi e i grandi autori leggendo e rileggendo (e magari anche analizzando e sezionando) anche cose che ci sembrano difficilissime.


3 • Underworld, Don De Lillo (Einaudi, 2014). De Lillo è uno dei miei autori preferiti di sempre e Underworld è uno dei pochi libri di De Lillo che non avevo mai letto prima. Era in una delle diete del libro di Vanni Santoni di cui ho parlato poche righe più sopra e quindi ne ho approfittato. La costruzione del libro, l’intreccio e l’idea di fare di un oggetto inanimato – una palla da baseball, nello specifico – il vero protagonista di una vera e propria saga epica postmoderna è grandiosa. Quello che non ho amato e che fa finire questo libro tra quelli di De Lillo che mi sono piaciuti di meno è lo stile: a volte – spesso – si ha l’impressione che l’autore sia eccessivamente autocompiaciuto della magia della sua penna e che molti passaggi siano più prove muscolari di bella (bellissima) scrittura che davvero necessarie alla narrazione.


4 • L’anno del pensiero magico, Joan Didion (Il Saggiatore, 2017). Non so se leggere un libro sul lutto e sulla morte durante una pandemia sia stata un’ottima idea, non l’ho ancora deciso. Di sicuro il modo che ha la Didion di fare autofiction, di affrontare argomenti complicati raccontando sè stessa, mettendosi a nudo con le proprie fragilità e le proprie paure e trasformando queste fragilità e queste paure in punti di forza attraverso la scrittura ha avuto il potere di farmi tornare almeno un pochino la voglia di scrivere e raccontarmi dopo un periodo difficile in cui ho creduto di aver perso quasi completamente la voce.


5 • Chthulucene, sopravvivere su un pianeta infetto, Donna Haraway (NOT/Nero, 2019). Chthulucene è due libri in uno, metà fiction speculativa e metà saggio. Leggerlo dal punto di vista del saggio xenoaccel mi ha dato i problemi di rigetto e “been there, done that” che mi hanno dato praticamente tutti i saggi xenoaccel letti negli ultimi anni, leggerlo dal punto di vista della fiction speculativa invece è stato un piccolo miracolo, mi ha infettato il cervello e adesso sogno di diventare un ibrido umano/farfalla monarca.


6 • Tomie, Junji Ito (J-Pop, 2017). Sono una creatura assai poco emotiva e anche se amo thriller, horror e letteratura gotica è davvero molto raro che mi provochino ansia, paura e brividini. Junji Ito è una delle rarissime eccezioni a questa regola e credo di voler vivere per due secondi nella sua testa per capire come faccia a concepire le cose così weird da sembrare fuori dall’immaginazione umana che riesce a concepire.


7 • It, Stephen King (Sperling e Kupfer, 2013). Rilettura a quindici anni di distanza dalla prima volta, stessa magia della prima volta: esattamente come la narrazione di King la me stessa adolescente e la me stessa quasi adulta si sono fuse in una nella storia e nel Club dei Perdenti. Resta uno dei miei libri della vita.


8 • Persone Normali, Sally Rooney (Einaudi, 2019). L’ho trovato gradevole come forma di intrattenimento ma faccio molta fatica a capire per quale motivo sia diventato un caso letterario. Mi hanno un po’ disturbata le citazioni a Marx buttate qua e là un tanto al chilo per rendere il libro catchy per un certo tipo di pubblico che probabilmente senza citazioni di Marx avrebbe semplicemente arricciato il naso di fronte all’ennesimo libro pseudoromance, come se ci fosse qualcosa di male nel leggere pseudoromance senza citazioni di Marx.


9 • Remoria: la città invertita, Valerio Mattioli (minimumfax, 2019). É un libro talmente pieno di suggestioni fiche e stratificate e infettanti nel senso buono e bello del termine che gli posso perdonare addirittura il Roma(est)centrismo


10 • Il libro dei mostri, Rodolfo J. Wilcock (Adelphi, 2019). L’ho letto in una notte e il modo in cui affronta il tema della surrealtà e della mostruosità normalizzandola e facendola sembrare quasi ordinaria, quotidiana, è incantevole.