My own private Introfada

Ho scoperto “Introfada” di Hamja Ashan circa un anno fa. Si chiamava ancora solo “Shy Radicals” (“Introfada” è il titolo italiano) e nella mia bolla non lo conosceva ancora nessuno o quasi. Non che io, del resto, abbia grandi meriti per la mia scoperta, che è stata del tutto randomica: una notte, come tante altre notti, non riuscivo a dormire e stavo cazzeggiando su Instagram. All’epoca ero in fissa con le fanzine autoprodotte americane e mi sono imbattuta, sempre in modo del tutto randomico, in un account che si chiama @adisorderedmind_zines, che raccoglie foto di fanzine autoprodotte e vendute su etsy sul tema della salute mentale (spoiler: ho in programma di avviare un progetto simile a breve, incrociate le dita per me!). Non ricordo se l’account di riferimento di Shy Radicals fosse tra i related o se fosse semplicemente citato in un qualche post, sta di fatto che ci ho cliccato su, ho lurkato un po’ e dopo pochi secondi senza nemmeno accorgermene ero già a cercare di procurarmi il libro prima e a leggerlo (nonostante all’epoca facessi ancora un sacco di fatica con le letture in inglese) poco dopo.

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All’epoca vivevo a Napoli da sei mesi e le mie speranze stupide e infantili di vedere improvvisamente la mia vita e soprattutto il livello delle mie relazioni e interazioni sociali migliorare grazie al trasferimento dal paesello di duemila abitanti alla Big City si stavano infrangendo contro una realtà molto diversa e molto crudele: quella della mia cazzo di ansia sociale che mi impediva (e mi avrebbe impedito nei mesi successivi, e in parte mi sta impedendo ancora adesso) di costruire legami significativi da un lato e distruggeva quelli che avevo dall’altro. Intanto le mie coinquiline dell’epoca organizzavano cene e pranzi invitando gente un giorno sì e l’altro pure e io combattevo con un misto di disagio che mi rendeva difficile e pesante addirittura attraversare lo spazio della cucina per arrivare in bagno dalla mia camera e senso di colpa derivato dal suddetto disagio.

Quando ho scoperto che “Shy Radicals” sarebbe stato tradotto in italiano col titolo di “Introfada” ero nel bel mezzo della ricerca di una nuova casa e ancora una volta credevo ingenuamente che sarebbe stato facile e bellissimo, che avrei trovato una stanza fica e dei coinquilini simpatici perchè sì. Ovviamente non è andata così: dopo due mesi di viaggi di due ore sotto al sole d’agosto in treni regionali scalcagnati, provini terribili in cui in circa mezz’ora di conversazione degli sconosciuti ti valutano non-si-sa-su-quali-basi per decidere se sei degno o meno di vivere con loro (o in casa loro, qualora a provinarti sia il landlord) e annessa ansia da prestazione, risposte vaghe del tipo “Ti faremo sapere” (spoiler: non ti fanno sapere mai), serate passate a spulciare i gruppi Facebook con gli annunci di affitti e/o a mandare a cagare tizi supercreepy dei gruppi Facebook con gli annunci di affitti ho accettato per disperazione la prima offerta di una stanza che sembrava simile ad una stanza vera a un prezzo più o meno accettabile. Le cose sono precipitate piuttosto rapidamente e sono precipitata anche io, crollando immancabilmente sotto i colpi del sovraccarico da interazioni continue ed eccessive con coinquiline estroverse e incapaci di capire le mie esigenze di introversa da un lato e dell’aumento vertiginoso della mia percentuale (già altina in partenza) di ansia sociale, con annessi attacchi di panico per strada mentre cerco di andare a compleanni a cui non andrò mai e fughe senza salutare nessuno da eventi non ancora iniziati dall’altro.

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Una delle mie (ormai ex) coinquiline estroverse, quando tentai di raccontarle degli attacchi di panico e dell’ansia sociale mi rispose qualcosa come “L’interazione con le persone è un motivo stupido per farsi venire l’ansia” con un overload di saccenza che in realtà, a pensarci a freddo, è una summa perfetta dei socialpensieri normie sul tema. Un’altra delle mie (ormai ex) coinquiline durante lo scazzo finale, quello di quando annunciai di volermene andare, mi disse che avrei dovuto interagire e parlare di più con lei e con le altre, come se non aver voglia (o non essere in grado) di interagire fosse una colpa, come se aver bisogno di tempo per sè perchè i contatti, le conversazioni e anche la semplice condivisione dello spazio del salotto ti tolgono le energie fosse qualcosa da correggere, come se aver scelto di prendere una casa in condivisione solo perchè (come gran parte degli studenti/precari nel tempo dell’ultracapitalismo) sei povera e non perchè “YEEEEE CHE BELLA LA CONDIVISIONE FACCIAMO TUTTO INSIEME AMICHE FOREVER” fosse una roba da stronza aliena (non che essere una stronza aliena mi dispiaccia, comunque, eh).

Insomma, la scoperta in inglese prima e l’uscita in italiano poi di “Introfada” sono accadute proprio (sincronicità junghiana?) nell’anno in cui la dittatura estroversa ha sferrato i suoi colpi contro di me nel modo più devastante di sempre e sapere di non essere sola nella lotta contro la necessità di essere socievole, di sorridere, di essere solare e tutte quelle altre cose false che si scrivono nei curriculum perchè altrimenti non ti prendono nemmeno a lavorare, è stato confortante.

Per capire quanto è stato confortante, perchè ci tenevo a parlare di questo libro qui nel blog e perchè sono contenta che se ne parli un sacco in giro, però, dobbiamo fare più di un passo indietro: dieci anni fa, quando iniziai a preoccuparmi troppo per il mio aspetto fisico, a litigare col mio corpo e a litigare col cibo che mangiavo al punto di rivomitarlo puntualmente, scrissi su uno dei miei vecchi blog ormai abortiti un post contro il francescanesimo e la dimessocrazia dei movimenti degli anni ’00 e nel giro di un paio d’anni (non per merito mio, sia chiaro) le cose sono cambiate e lo spazio dei movimenti – sia quello fisico che quello virtuale – è diventato un florilegio di feste, corpi in movimento, luccicanza e dintorni. Bello, bellissimo. Lo spazio virtuale dei media liberal, intanto, si è riempito di corpi difformi, corpi grassi come quello che sentivo di avere io, corpi bassi, corpi non-bianchi, facce stranette eccetera eccetera. Bello, bellissimo anche quello – totale assenza di critica politica e potenziale di narrazione di lotta a parte, s’intende.

E invece no. E invece bello, bellissimo un cazzo: anche la nuova rotta intrapresa sia dai movimenti che dai media liberal, la celebrazione del cosiddetto empowerment, il beyonceismo e tutto il resto ha mostrato ben presto, almeno per le persone come me – introverse, con ansia sociale e/o difficoltà di varia natura nell’interazione col prossimo – il lato oscuro. Perchè per stare nei movimenti devo per forza aver voglia di ballare di continuo? Perchè non ci si inventa una modalità di interazione che faccia sentire a proprio agio i poveri stronzi che cercano di sforzarsi di parlare per tutta l’assemblea e quando finalmente ce la fanno parlare non ha più senso perchè si è passati all’argomento successivo? Perchè la maggior parte delle narrazioni sulla sex positivity è la celebrazione di un libertinaggio che sì, bello in teoria ma in pratica per noi introversi, ansiosi e insicuri è un incubo? Perchè (e viene proprio da chiederselo leggendo alcuni passaggi di “Shy Radicals” in cui si celebra il valore delle strade silenziose) se non riesci a stare nella festa, se ti piace il silenzio, se non ti piace il libertinaggio, allora devi necessariamente essere un fan del decoro di merda? Perchè esistono le sentinelle in piedi (silenziose) da un lato e l_ compagn_ del famoso striscione (che mi piace pure, beninteso) “La violenza sta in silenzio, l’amore fa rumore” dall’altro? Non può esistere una terza via, una lotta a misura di introversi, un amore silenzioso a misura di insicuri, una rappresentazione mediatica che non sia “o sei bella, o sei sicura di sè e se non sei nessuna delle due cose ti attacchi”? É colpa del capitalismo e del patriarcato se ci sentiamo insicuri e a disagio nell’interazione con gli altri? Probabile, ma fino a quando non ci liberiamo del capitalismo e del patriarcato che facciamo? Stiamo male, ci autofustighiamo condannandoci ad eventi sociali in cui ci sentiamo a disagio e fuori luogo?

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Il libro non risponde a nessuna di queste domande, ma la speranza è che parlarne aiuti quanta più gente possibile a farsele.

Ci sarebbe ancora molto da dire sul tema (per esempio parlare di nerd, incel e otaku e della narrazione che riguarda queste tre categorie), e forse lo farò più avanti. Intanto, lascio un paio di suggerimenti di lettura per allargare il dibattito e dare altri punti di vista: “Potere ai timidi” (Not) e “Guida all’Introfada” (il Tascabile).