Fuggire dalla performance, tornare al racconto #1

La (ri)comparsa di nomi come Brunetta, Gelmini e Carfagna sulla scena politica e nelle cronache ha più o meno prevedibilmente generato l’ennesima nostalgia per i presunti bei tempi andati e sebbene io sia convinta che la nostalgia acritica, anche (soprattutto?) quando è nostalgia di movimento è pericolosamente reazionaria, non ho potuto fare a meno di lasciarmi andare ai ricordi. Siccome sono come al solito un’egocentrica di merda, però, ho direzionato la nostalgia verso me stessa e mi sono messa a riflettere sulla me stessa di dieci anni fa. Poi, come capita di solito a noi overthinker professionisti, una riflessione si è sovrapposta all’altra in un groviglio confuso e alla fine ho deciso di provare a districare un minimo il groviglio con la scrittura. Questo racconto, che divido in puntate perchè mi sta venendo davvero troppo lungo, è quello che ne è venuto fuori

I • La costruzione di sè

Circa dodici anni fa il mio disturbo alimentare spegneva la sua seconda candelina e io, rispondendo ad un appello di un blog femminista molto in voga all’epoca che si chiamava Femminismo a Sud, decisi di provare a raccontare qualcosa della mia convivenza con la bulimia. Il post ottenne un sacco di riscontri e soprattutto avevo l’impressione che scrivere, raccontare della bulimia, in qualche modo mi aiutasse a stare meglio, sia perchè mi rendeva più semplice scendere a patti con il demone che mi infestava la testa che perchè mi faceva sentire utile alla lotta, ai movimenti e al mondo, permettendomi di incanalare le mie insicurezze e le mie fragilità, di sovvertirle e di trasformare in un percorso di rivolta che passava per l’autonarrazione. Non mi potevo permettere un terapista, dieci anni fa la terapia non era ancora socialmente accettata come adesso (non sto dicendo che la situazione attuale sia rosea, ma dieci anni fa era molto peggio) e per di più il triangolo relazionale tra me stessa, il mio disturbo e i miei genitori che all’epoca iniziavano ad attraversare i primi tumulti della crisi che li avrebbe portati alla separazione era un cazzo di disastro, quindi scrivevo, scrivevo, scrivevo qualsiasi cosa mi capitasse e/o mi passasse per la testa. Il mio primo blog, che si chiamava “La femme cannibale” (il titolo di una canzone degli UIan Bator), ebbe un discreto successo, o almeno così mi sembrava: Loredana Lipperini lo menzionò nelle pagine culturali di Repubblica, un sacco di gente mi scriveva ringraziandomi per le cose che scrivevo e visto che all’epoca non esisteva ancora Io, professione mitomane a farti sentire ridicolo ogni volta che gioivi per i tuoi stupidi ed effimeri successi su internet, mi ritrovai a vivere – bulimia a parte – un periodo relativamente felice, illuminato da una discreta stima di me stessa, delle mie presunte capacità di scrittura e della presunta utilità politica di quello che scrivevo.

All’epoca utilizzavo poco Facebook e la maggior parte della mia vita virtuale si svolgeva su Twitter e su Giap, il blog dei Wu Ming, oltre che sui blog che hanno preceduto questo su cui sto scrivendo ora. Si era creato più o meno spontaneamente un gruppo di persone che interagivano spesso tra loro costituendo (più o meno) una versione embrionale di quella che sarebbe poi diventata la mia filter bubble attuale e siccome all’epoca esistevano ancora gli spazi occupati, i centri sociali, la realtà fisica, i festival, le presentazioni dei libri e la possibilità di girare ed incontrarsi iniziai a mischiare la mia identità reale e la mia identità virtuale incontrando dal vivo alcune delle persone con cui interagivo nella pseudobolla e partecipando addirittura ad assemblee ed altri eventi pubblici in cui bisognava parlare a voce. Calare la virtualità nella realtà innescava nella mia testa un processo strano: da un lato era entusiasmante, eccitante, mi faceva sentire finalmente al centro delle cose che succedono e del fermento e libera dall’orizzonte del paesello da cui avevo cercato di scappare per tutta la vita e dall’altro era una specie di ordalia, una tortura autoimposta durante la quale piuttosto che dedicarmi a conoscere genuinamente la persona che avevo di fronte mi concentravo, da schifosa egocentrica quale sono – deve essere per via dell’ascendente leone – su me stessa, chiedendomi cosa pensasse l’altra persona di me e se avessi soddisfatto le sue aspettative sulla persona che ero e rispondendomi da sola che “sicuramente no“.

Pensavo a Keats, a quando racconta, profondamente deluso, del suo incontro con Wordsworth: si aspettava un genio brillante, si era ritrovato ad avere a che fare con un omuncolo mediocre. Io volevo così tanto e da così tanto tempo essere Keats che ero terrorizzata dall’idea di scoprirmi Wordsworth e all’epoca, quando mi illudevo ancora che almeno le mie fragilità e i miei difetti fossero solo miei, speciali ed eccezionali pur nella loro bruttura, pensavo di essere la sola al mondo a sentirmi in quel modo e mi sentivo l’unica persona fragile e sfigata in un mondo di persone fichissime, assertive e di successo.

Quello che è venuto dopo mi ha fatto non solo cambiare idea sull’eccezionalità delle mie ansie ma anche capire che si trattava della punta dell’iceberg, di uno dei tanti sintomi del capitalismo della performance. Di questo, però, parliamo nella prossima seduta di autoanalis-puntata, volevo dire puntata.

Letturine 2020 #4

Ultima puntata delle microrecensioni delle mie letture del 2020. Trovate qui la prima, qui la seconda e qui la terza.


1 • Storia della morte in Occidente, Philippe Ariès (BUR, 1998) Scoperto grazie a Joan Didion, che lo menziona nel suo “L’anno del pensiero magico“, sono felicissima di averlo letto perchè mi sembra imprescindibile e mi sembra imprescindibile pure incominciare a liberarci del tabù intorno alla morte ed al lutto ed iniziare a trattare più spesso e più diffusamente questi argomenti senza i quali qualsiasi analisi politica, sociale e culturale risulta di fatto monca. Sebbene tratti un argomento complesso e vasto e sebbene sia stato scritto circa quarant’anni fa ha il pregio di utilizzare un linguaggio e uno stile decisamente accessibili anche per i non addetti ai lavori.


2 • Tre libri di filosofia occulta, H.C. Agrippa Von Nettesheim. É un trattato di inizio ‘500 e leggerlo come si leggerebbe un libro contemporaneo, con un punto di inizio, una consequenzialità e un punto di fine risulta pesante ed ostico, anche e soprattutto perchè molti passaggi e molti argomenti sono ripetizioni di ripetizioni. Utilissimo e interessantissimo è invece usarlo come un breviario da consultare alla voce di interesse per approfondire la storia culturale di questa o quella pratica occulta.

3 • Rosemary’s Baby, Ira Levin (BigSUR, 2015). Ho amato il film di Polanski ma ho amato ancora di più il libro di Levin che, oltre ad essere un capolavoro di horror psicologico ansiogeno, è anche e forse soprattutto un trattato su gaslighting ed abuso psicologico (che fanno più paura dell’Anticristo).


4 • Fuori dal Dungeon. Genere, razza e classe nel gioco di ruolo occidentale, Marta Palvarini (Asterisco Edizioni, 2020).
Trovo che pensare e raccontare questo libro come un saggio che racconta la composizione sociopolitica dell’ambiente dei giochi di ruolo ai giocatori di ruolo (che quell’ambiente, quindi, già lo conoscono) sia restrittivo e controproducente e mi sembra, invece, molto più utile, auspicabile e quasi necessario che a leggerlo siano persone che dall’ambiente sono fuori, che lo conoscono poco o niente e che però vorrebbero capire gli intrecci tra i processi e le forme politiche contemporanee e la nerd culture, di cui il gioco di ruolo è e sarà sempre una parte consistente e che ultimamente trova sempre più spazio nel mainstream.

5 • La zona morta, Stephen King (Sperling&Kupfer, 2013). Unico libro che – shame on me – sono riuscita a leggere per il gruppo di lettura lanciato da Fiore Manni e Michele Monteleone, uno dei pochi di King che mi mancava (avevo vaghi ricordi solo del film di Cronenberg). Non uno dei migliori di King: se le premesse sono ottime, l’organizzazione dell’intreccio è un po’ maldestra, alcuni passaggi sono risolti in modo sbrigativo e i raccordi tra un punto e l’altro della storia sembrano un po’ deboli.


6 • Notti al circo, Angela Carter (Fazi Editore, 2017). All’inizio la scrittura eccessivamente barocca, quasi manieristica, e il fatto che la Carter ricamasse moltissimo sulle descrizioni, mi pesava. Poi, andando avanti, mi ci sono abituata ed ho iniziato ad apprezzare la storia e a capire che quella scrittura, quello stile barocco che mi aveva disturbata, non era altro che la trasposizione metatestuale del turbamento generato a Walser dagli eccessi di Sophie Fevvers. Avevo appena finito di leggerlo quando, per una meravigliosa coincidenza, è uscita una puntata di Monstrumana (uno dei miei podcast preferiti, che credo di aver già menzionato quando ho parlato di Frankenstein) dedicata proprio a questo libro che me l’ha fatto amare e capire ancora di più e che mi ha fatto rivalutare il valore della critica letteraria fatta bene, che stimola alla riflessione e guida il lettore tra i livelli e i sottotesti di quello che legge.


7 • Madre delle ossa, David Demchuk (Zona42, 2020). Credo che sia il mio libro preferito del 2020 e mi dispiace un sacco che se ne sia parlato davvero poco. É come se l’Antologia di Spoon River, Trilogia della Città di K della Kristòf, il post-esotismo di Volodine e il folk horror (precisamente quello slavo) si fossero fusi insieme in un’atmosfera da realismo magico nebbioso e soffuso infestando meravigliosamente il cervello. Punti bonus per la sempre ottima traduzione della Durastanti.


8 • Gotico femminile, AA.VV. (Jouvence, 2020). Un’antologia di racconti (o stralci di romanzi) di autrici più o meno famose che ci sottolinea e ci ricorda il legame imprescindibile tra le donne e il gotico.


9 • Girls Against God, Jenny Hval (Verso Books, 2020). Praticamente un manifesto di doomer feminism a metà tra la theory e l’autofiction. Bellissimo, spero che lo traducano anche in italiano e che si diffonda. Bonus points se lo si legge ascoltando un disco a caso di Jenny Hval e si rimestano nel cervello le parole e la musica. Unica nota negativa: in alcuni passaggi lo stile è ripetitivo e pesantino.


10 • Sirene, Laura Pugno (Marsilio, 2017). Me ne avevano parlato così bene che forse mi aspettavo troppo. Non mi è dispiaciuto e mi è piaciuta molto l’idea di mischiare fantascienza speculativa e mitologia/folk horror, però mi aspettavo decisamente altro. I riferimenti cyberpunk sono un po’ tanto sterotipati e soprattutto i personaggi sono molto – troppo – bidimensionali (Samuel che passa in dieci righe, assolutamente a caso, dal voler uccidere la madre di Mia al voler tenere Mia con sè è l’esempio più indicativo, ma è un difetto costante di tutto il libro). Qualcuno ha detto che la bidimensionalità dei personaggi è qualcosa di stilisticamente voluto e cercato per rappresentarne la disumanizzazione, però non è una spiegazione che mi convince molto.


11 • Carrie, Stephen King (Bompiani, 2017). Per una serie di ragioni, tipo il fatto che da adolescente in un paesello di 2500 abitanti ho avuto a che fare col bullismo e tipo il fatto che avrei voluto spaccare tutto come Carrie anche se poi non l’ho mai fatto e non solo perchè non avevo i poteri telecinetici, è uno dei miei libri della vita. L’ho riletto ad anni di distanza e con le ferite interiori di quindici anni fa ormai quasi rimarginate, eppure l’ho amato e ho sofferto come allora.


12 • Monster Theory: Reading Culture, a cura di Jeffrey Jerome Cohen (University of Minnesota Press, 1996). Saggio antologico sui mostri e sulla mostruosità (e sul loro legame con la marginalizzazione) nella letteratura. Un ottimo punto d’ingresso per avvicinarsi alla tematica da diversi punti di vista.

Letturine 2020 #3

Terza di quattro puntate sulle mie letture del 2020 con tanto di microrecensioni. Trovate la prima qui e la seconda qui.


1 • Città sola, Olivia Laing (Il Saggiatore, 2018). Uno dei miei libri preferiti del 2020. La Laing racconta le diverse sfaccettature della solitudine – da quella dell’era digitale a quella derivata dal non riuscire a stabilire connessioni nel mondo accelerato del postcapitalismo e dell’iperproduttività, a quella di cui si soffre anche quando si è circondati, stimati e apprezzati da un sacco di persone – attraverso le vite di artisti, fotografi e poeti più o meno noti. David Foster Wallace parlava della letteratura come antidoto contro la solitudine e questo libro, questo libro che parla di solitudine, letto in un momento storico in cui la solitudine forzata è la prassi, per me è stato esattamente questo.


2 • La scrittura non si insegna, Vanni Santoni (minimumfax, 2020). Non so se sia un buon manuale di scrittura, perchè purtroppo per i miei problemi con la scrittura a questo punto più che un buon manuale o un buon corso servirebbe un buon terapista, però è di sicuro un ottimo manuale di lettura: la parte della dieta (delle diete, per essere precisi, dal momento che Santoni ne propone diverse) è uno stimolo fortissimo a sfidare sè stessi e i grandi autori leggendo e rileggendo (e magari anche analizzando e sezionando) anche cose che ci sembrano difficilissime.


3 • Underworld, Don De Lillo (Einaudi, 2014). De Lillo è uno dei miei autori preferiti di sempre e Underworld è uno dei pochi libri di De Lillo che non avevo mai letto prima. Era in una delle diete del libro di Vanni Santoni di cui ho parlato poche righe più sopra e quindi ne ho approfittato. La costruzione del libro, l’intreccio e l’idea di fare di un oggetto inanimato – una palla da baseball, nello specifico – il vero protagonista di una vera e propria saga epica postmoderna è grandiosa. Quello che non ho amato e che fa finire questo libro tra quelli di De Lillo che mi sono piaciuti di meno è lo stile: a volte – spesso – si ha l’impressione che l’autore sia eccessivamente autocompiaciuto della magia della sua penna e che molti passaggi siano più prove muscolari di bella (bellissima) scrittura che davvero necessarie alla narrazione.


4 • L’anno del pensiero magico, Joan Didion (Il Saggiatore, 2017). Non so se leggere un libro sul lutto e sulla morte durante una pandemia sia stata un’ottima idea, non l’ho ancora deciso. Di sicuro il modo che ha la Didion di fare autofiction, di affrontare argomenti complicati raccontando sè stessa, mettendosi a nudo con le proprie fragilità e le proprie paure e trasformando queste fragilità e queste paure in punti di forza attraverso la scrittura ha avuto il potere di farmi tornare almeno un pochino la voglia di scrivere e raccontarmi dopo un periodo difficile in cui ho creduto di aver perso quasi completamente la voce.


5 • Chthulucene, sopravvivere su un pianeta infetto, Donna Haraway (NOT/Nero, 2019). Chthulucene è due libri in uno, metà fiction speculativa e metà saggio. Leggerlo dal punto di vista del saggio xenoaccel mi ha dato i problemi di rigetto e “been there, done that” che mi hanno dato praticamente tutti i saggi xenoaccel letti negli ultimi anni, leggerlo dal punto di vista della fiction speculativa invece è stato un piccolo miracolo, mi ha infettato il cervello e adesso sogno di diventare un ibrido umano/farfalla monarca.


6 • Tomie, Junji Ito (J-Pop, 2017). Sono una creatura assai poco emotiva e anche se amo thriller, horror e letteratura gotica è davvero molto raro che mi provochino ansia, paura e brividini. Junji Ito è una delle rarissime eccezioni a questa regola e credo di voler vivere per due secondi nella sua testa per capire come faccia a concepire le cose così weird da sembrare fuori dall’immaginazione umana che riesce a concepire.


7 • It, Stephen King (Sperling e Kupfer, 2013). Rilettura a quindici anni di distanza dalla prima volta, stessa magia della prima volta: esattamente come la narrazione di King la me stessa adolescente e la me stessa quasi adulta si sono fuse in una nella storia e nel Club dei Perdenti. Resta uno dei miei libri della vita.


8 • Persone Normali, Sally Rooney (Einaudi, 2019). L’ho trovato gradevole come forma di intrattenimento ma faccio molta fatica a capire per quale motivo sia diventato un caso letterario. Mi hanno un po’ disturbata le citazioni a Marx buttate qua e là un tanto al chilo per rendere il libro catchy per un certo tipo di pubblico che probabilmente senza citazioni di Marx avrebbe semplicemente arricciato il naso di fronte all’ennesimo libro pseudoromance, come se ci fosse qualcosa di male nel leggere pseudoromance senza citazioni di Marx.


9 • Remoria: la città invertita, Valerio Mattioli (minimumfax, 2019). É un libro talmente pieno di suggestioni fiche e stratificate e infettanti nel senso buono e bello del termine che gli posso perdonare addirittura il Roma(est)centrismo


10 • Il libro dei mostri, Rodolfo J. Wilcock (Adelphi, 2019). L’ho letto in una notte e il modo in cui affronta il tema della surrealtà e della mostruosità normalizzandola e facendola sembrare quasi ordinaria, quotidiana, è incantevole.

Letturine 2020 #2

Seconda di quattro puntate sulle mie letture del 2020 con tanto di microrecensioni. Trovate la prima qui

1 • Endymion, a poetic romance, John Keats (Edizioni Conoscere, 2017). In Endymion troviamo un Keats acerbo e ancora lontano dai capolavori dela maturità artistica. Proprio le imperfezioni e gli inciampi, i passaggi quasi adolescenziali nel loro essere semplicistici, tuttavia, sono l’aspetto di quest’opera a cui voglio più bene perchè mi fa entrare in contatto con il lato più umano e più “avvicinabile” di uno dei miei poeti preferiti di sempre.

2 • Vathek, William Beckford (in “I capolavori della letteratura horror”, Newton Compton, 2015). Un romanzo gotico con atmosfere alla Mille e una Notte e ambientazione mediorientale è qualcosa di cui, per la sua eccezionalità, forse è il caso di parlare, conoscere e far conoscere di più. L’unico difetto che ho trovato è che la scrittura a volte è così manieristica da risultare stucchevole, più che suggestiva.

3 • Frankenstein, Mary Shelley (Penguin Classics, 2003). Rilettura, anche se questa è stata la prima volta che l’ho letto in inglese. É uno dei miei libri preferiti di sempre e leggerlo negli stessi giorni in cui scoprivo Monstrumana, il mio podcast preferito del 2020 che parla dei mostri della letteratura e in cui ovviamente c’è una puntata sul capolavoro della Shelley, mi ha fatto scoprire aspetti nuovi di un testo che credevo di conoscere a memoria e mi ha fatto innamorare di nuovo come se l’avessi letto per la prima volta.

4 • Trilobiti, Breece DJ Pancake (ISBN Edizioni, 2005). Se il midwest emo fosse un libro, probabilmente sarebbe qualcosa del genere.

5 • Brevemente risplendiamo sulla terra, Ocean Vuong (La Nave di Teseo, 2019). Ocean Vuong nel suo primo romanzo racconta di vita suburbana, identità – etniche e di genere – liminali, queerness e margini e lo fa con una scrittura che riesce ad essere lirica e suggestiva senza diventare mai stucchevole e asfittica (resa benissimo, nell’edizione italiana, dall’ottima traduzione di Claudia Durastanti). L’unico difetto è che la storia, spesso, risulta un po’ debole e non riesce a sostenere la bellezza dello stile.

6 • Crocevia di punti morti, Matteo Grilli (effequ, 2020). Come ho scritto nella premessa della prima puntata di queste letturine, non sono veramente in grado di fare delle classifiche, ma se mi costringessero a farne una sono sicurissima che questo libro finirebbe nella top5. Anche questo è un romanzo che parla di margini e spazi liminali: quelli esteriori, tra la città e una provincia che non è quella stucchevolmente borghese di molta letteratura italiana degli ultimi anni, ma quella vera bellissima e marcissima che a tratti sembra affine a quella raccontata dal suddetto Pancake; quelli interiori, del passaggio tra un’adolescenza che a causa della precarizzazione post-capitalista è diventata troppo lunga e un’età adulta che sembra più una minaccia che altro; quelli di genere a metà strada tra il romanzo di formazione e il romanzo horror /weird e quelli stilistici, che attingono a piene mani dalla internet culture facendo da implicito manifesto al concetto di lingua come entità viva e in continua trasformazione (probabilmente non è casuale che a pubblicare questo romanzo sia stata la stessa casa editrice che si è fatta portavoce delle battaglie per una lingua più inclusiva). Dal punto di vista più emotivo la cosa che ho amato particolarmente è che l’autore non si limita a raccontare i margini ma ci insegna ad abitarli, abbracciarli ed amarli grazie allo stare insieme (e in questo, più che il King a cui è stato pur giustamente paragonato, mi ha ricordato molto una delle mie autrici preferite, Kathy Acker, che in Empire of the senseless scrive “We battle not in order to stay alive (…) but in order to love each other”).

Letturine 2020 #1

Quest’anno, grazie ad una serie di congiunzioni astrali, alcune favorevoli e altre (tipo la quarantena) molto meno, sono riuscita a leggere un sacco, quasi a tornare ai ritmi velocissimi e alla voracità della mia adolescenza. Non ho letto molte cose recenti e un paio di cose sono state riletture, ma sono comunque contentissima.

Non so fare le classifiche di fine anno, quindi provo a fare una cosa diversa, anche per farmi perdonare di avervi infestato i feed di Instagram e quelli di Facebook delle foto, rigorosamente venute malissimo, delle mie letture: le microrecensioni di tutta la roba che ho letto dall’inizio dell’anno ad adesso.

1 • Terminus Radioso, Antoine Volodine (66thand2nd, 2016). Se mi fossi autocostretta a fare una classifica o comunque a scegliere solo dieci libri, questo lo avrei sicuramente inserito: la cosa che ho amato di più è che Volodine, pur dipingendo scenari pseudofantastici, da realismo magico molto magico e poco realistico, ha una scrittura iper-evocativa che riesce a far immaginare perfettamente al lettore le scene. L’unico difetto che ho trovato è che a volte sembra troppo compiaciuto e lo stile diventa così fitto da diventare ostico ed ansiogeno se – come nel mio caso – si fa un po’ fatica a mantenere concentrati.

2 • Apocalypse Baby, Virginie Despentes (Einaudi, 2012). Mixed feels. Sono molto contenta del fatto che ci sia una scrittrice come la Despentes che scrive noir in un modo non machista e ipertestosteronico, però a me non ha lasciato molto, non so se perchè non è il mio genere d’elezione o se semplicemente nel momento in cui l’ho letto avevo voglia e bisogno di altro.

3 • Nuova era oscura, James Bridle (NOT/Nero, 2019). Questo 2020, almeno per la prima parte, è stato un anno infausto per il mio rapporto con i saggi, probabilmente perchè li ho sempre ricollegati con il detestabile chiacchiericcio della mia filter bubble e qualsiasi cosa anche solo vagamente theory-related leggessi non solo mi dava feels da “been there, done that” e in genere di discorsi già fatti e sentiti duemila volte, vecchi, stantii, ammuffiti e tutto sommato inconcludenti ma pure un brutto senso di oppressione. Adesso, a distanza di mesi, però ricordo distintamente dei passaggi di Nuova era oscura, mi si sono sedimentati nel cervello, mi sembrano importanti e non vedo l’ora di trovare il tempo per rileggere questo libro adesso che tutto sommato i miei conflittini e le mie ansie bolla-related li ho risolti.

4 • Assalonne, Assalonne!, William Faulkner (Adelphi, 2001). Faulkner resta uno dei miei autori preferiti di sempre e, al di là dei meriti letterari di cui hanno scritto diffusamente persone più brave di me, è uno dei libri che mi hanno aiutata a sopportare la vita al paesello ammantandola di estetica southern gothic in salsa italiana per infondere un po’ di sense of wonder all’orrore dell’abitudine.

5 • Casa di foglie, Mark Z. Danielewski (66thand2nd, 2019). Casa di foglie è più un’esperienza di lettura che un libro. Fino a tre quarti del libro mi sono ritrovata ad andare avanti con un misto di fastidio e irritazione perchè volevo capire dove volesse andare a parare: lo detestavo ma non riuscivo a staccarmi, non riuscivo ad uscire dal labirinto (pun ovviamente intended) e quando ho capito che era esattamente quello il punto mi è esploso il cervello. Un capolavoro di metatestualità.

6 • Jack Bennett e la chiave di tutte le cose, Fiore Manni (Rizzoli, 2018). L’ho letto sia perchè Fiore, l’autrice, è una persona che mi piace un sacco e quando la incrocio nel feed di Instagram mi dà sempre un sacco di vibrazioni positive che perchè ero in un periodo di generica stanchezza emotiva che mi faceva sentire la necessità di prendermi una pausa da saggi e romanzoni impegnativi. É un libro per ragazzi con echi ed atmosfere a metà strada tra C.S. Lewis e Roald Dahl, che mi ha ricordato i tempi in cui scrivere e inventare mondi nella mia testa mi faceva stare bene e lo consiglierei sia a chi ha ragazzi preadolescenti (figli, cugini, nipoti, quellochevipare) a cui regalarlo che alle persone come me, che anche a 30 anni ogni tanto sentono il bisogno di far respirare il cervello.

7 • Il cuore è un cacciatore solitario, Carson McCullers (Einaudi, 2008). Il modo in cui McCullers racconta la meraviglia e la poesia delle esistenze ai margini, senza pietismi e senza occhiali rosa romanticizzanti è una piccola meraviglia e Mick è un personaggio bellissimo.

8 • Nevernight #1 – Mai dimenticare, Jay Kristoff (Mondadori / Oscar Fantastica, 2019). Dalle recensioni mi aspettavo qualcosa di molto più dark e weird, invece sono rimasta delusa. É un misto tra il solito fantasy con l’eroina che si vendica dei torti subiti e una specie di Harry Potter con l’omicidio al posto della magia e sulla stessa falsariga trovo di gran lunga migliore la saga delle “Guerre del Mondo Emerso” della Troisi, che però è stato semi-ignorato se non addirittura insultato perchè ha avuto la sfortuna di uscire in un momento storico in cui la letteratura di genere era quasi ignorata. Oltre a tutto ciò c’è una scena di sesso lunga svariate pagine e molto dettagliata e sebbene – almeno per me che non ho problemi di nessun tipo con le descrizioni esplicite e dettagliate – non sia propriamente disturbante, mi è sembrata superflua per lo sviluppo del libro.

9 • Omnicide: Mania, Fatality, and the Future in Delirium, Jason Babak Mohagheg (Urbanomic, 2019). Se lo si intende come un catalogo poetico è molto bello e utile perchè dà modo di scoprire un sacco di poesia non occidentale, se lo si intende come un saggio theory invece non si capisce il punto e dove voglia andare a parare precisamente (o almeno io non l’ho capito). In definitiva diciamo che lo consiglio, però state attenti a settare bene le vostre aspettative prima di leggerlo.

10 • Cime tempestose, Emily Bronte (Newton Compton). Non avevo mai letto Cime tempestose (shame on me) e adesso che l’ho fatto credo che la cultura pop (bianca e cisetero) abbia scempiato questo libro e la memoria della Bronte che l’ha scritto, cancellando completamente il fatto che sia una storia di rancore, vendetta e marginalizzazione e facendola passare solo come una grande storia d’amore (forse perchè l’ha scritto una femmina e i critici non possono accettare che le femmine possano scrivere cose diverse dalle storie d’amore, per carità). Leggetelo per davvero e piantatela di romanticizzare Heathcliff e Catherine, altrimenti vi mando il fantasma della Bronte a infestarvi casa.

[la seconda puntata della lista arriva il 2 gennaio. In tutto ci saranno quattro puntate, pubblicate ogni due o tre giorni]

We are the weirdos (una lettera d’amore)

Questo non è un post, questa è una lettera d’amore.
Per tutti i disadattati, per tutti quelli che si sentono continuamente fuori luogo e indesiderati, per tutti i freak, quelli che hanno fatto dell’autosabotaggio un’arte, quelli che sono sul punto di cedere ottocento volte al giorno, quelli che fanno fatica anche solo ad esistere, figuriamoci a lottare contro l’esistente. Quelli che non hanno ancora trovato il proprio posto nel mondo e forse non lo troveranno mai, quelli che si sentono soli, quelli che si sentono non abbastanza. Non abbastanza bravi, non abbastanza belli, non abbastanza intelligenti, non abbastanza socievoli, non abbastanza niente. Quelli che si sentono sopraffatti dalle proprie fragilità e che non riuscendo a farle scomparire pensano di voler scomparire insieme a loro per liberarsene.

Quelli come me. Quelli che in questi anni mi hanno scritto in qualsiasi forma per dirmi che si riconoscevano nelle cose che scrivevo, quelli che ci sono stati e continuano a esserci nonostante le assenze, le distanze fisiche ed emotive, le alienazioni. Quelli che ogni volta che cado per mesi nel vortice dei brutti pensieri aspettano pazientemente sul bordo che io esca di nuovo fuori perchè sanno come ci si sente a caderci dentro, quelli che ti salvano inconsapevolmente la vita con un come stai?

Non siete soli, non siamo soli. Vi amo, anche se non riesco a dimostrarlo, anche se non sembra, anche se mi sto vergognando mentre lo scrivo. Per voi continuo a lottare (e ogni tanto a scrivere, a testimoniare pezzi di lotta), sperando che voi facciate lo stesso e che tenendoci per mano riusciremo un giorno a distruggere tutti i vortici.

La sesta estinzione (writing challenge #2)

(la challenge la trovate qui. “La sesta estinzione” è il secondo racconto ed è un mito sull’origine del genere umano che è contemporaneamente la storia di un’estinzione. Il titolo è rubato ad un episodio di X-Files)

Mia madre è stata l’ultima a morire nel nostro gruppo e il nostro gruppo, da quanto ne sapevamo, era uno degli ultimi rimasti. Era passato un anno dall’impatto con l’asteroide. I più fortunati, quelli che vivevano nella zona dell’impatto, che includeva gran parte dell’Europa dell’Est, sono morti sul colpo. Per gli altri è stata una morte lenta, un lunghissimo miglio verde verso l’estinzione in un pianeta diventato completamente braccio della morte: alcuni sono stati uccisi dalle polveri che hanno contaminato l’aria, l’acqua e le piante, che sono entrate negli occhi, nelle orecchie, nel naso e nei polmoni privandoli progressivamente della capacità di respirare; altri si sono ammazzati – qualcuno da solo, come è successo a mio padre, qualcuno in gruppo, sulla scia di neonati culti apocalittici che promettevano la speranza di un mondo dopo il mondo, dopo la fine. Qualcuno è morto di fame, quando le piante hanno iniziato a seccarsi e gli animali a morire. Gli ultimi sono morti di freddo, quando lo stravolgimento del clima ha portato ad una nuova glaciazione quasi improvvisa.

Non so dire di cosa sia morta mia madre. A un certo punto ho quasi avuto l’impressione che si sia semplicemente arresa all’idea di doversi estinguere. Vorrei raccontare di ultime parole drammatiche ma toccanti, testamenti morali o qualcosa del genere ma queste cose succedono solo nei film del mondo prima della catastrofe, quelli che probabilmente non vedremo mai più: mia madre, verso la fine, respirava a stento e aveva appena la forza per chiedermi sorsi della poca acqua che avevamo quando non ce la faceva più a resistere alla sete. Non so nemmeno se interpretare tutto quel resistere come un atto d’amore e di sacrificio per me, un tentativo di non consumare troppa acqua per lasciare più speranze a me o se, invece, semplicemente non avesse la forza, il fiato e la presenza d’animo per chiederne più spesso. 

Le ho chiuso gli occhi e ho coperto il cadavere con un telo. Avrei voluto seppellirla ma il terreno gelido e duro e l’assenza di una pala o di qualsiasi cosa che ci assomigliasse me l’ha impedito. Ci ho provato, a scavare a mani nude, ci ho provato fino a farmi sanguinare i polpastrelli. Non ci sono riuscito, ho pianto come non facevo da molto tempo, come probabilmente non avevo mai fatto, cercando invano di sfogare la frustrazione e il senso d’impotenza che cercavano di insinuarmisi dentro e di uccidere anche me. 

É stato più o meno a quel punto che l’istinto di sopravvivenza mi ha indotto a ricordarmi della voce: l’avevo sentita provenire dall’unica radio che ci era rimasta, distorta all’inizio, intervallata da sprazzi di rumore bianco, tanto che pensai si trattasse di un’allucinazione uditiva, la versione sonora di un miraggio nel deserto o qualcosa del genere. Progressivamente, però, divenne sempre più chiara: era il lamento di una bambinetta e ogni tanto, in mezzo al pianto, pronunciava qualche parola stentata in una lingua che non capivo. Mi ripromisi di indagare, di capire se ci fosse davvero una qualche speranza di trovare altri gruppi di sopravvissuti prima di dirlo agli altri. Non riuscii a indagare e finii per dimenticarmene anche io. 

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Nel momento in cui il ricordo è riemerso, però, mi ci sono aggrappato, come se fosse uno scoglio stabile in mezzo ad un oceano in tempesta, interpretandolo come una specie di presagio e convertendomi senza nemmeno rendermene conto ad un pensiero magico a cui non avevo mai ceduto prima.

Dei due anni impiegati per cercare la bambina della radio ricordo poco: lunghe traversate in lande ghiacciate, settimane di fame e allucinazioni, ghiaccio sciolto da bere, paura, momenti in cui ho pensato di essere morto e che a camminare fosse il mio fantasma, animali mutati mangiati nella speranza di non mutare anche io, cadaveri congelati mangiati nella speranza di non essere colpito da qualche maledizione. 

Quando ho trovato Hana stava scuoiando un cadavere appena scongelato e non ho mai capito se lo stesse facendo per mangiarlo, per usare la pelle come vestito o per un rituale di qualche tipo. Mi sono avvicinato come ci si avvicina a un animale selvatico che potrebbe scappare da un momento all’altro o azzannarti e in effetti lo scatto di lei, che impugnava ancora un coltellino piccolo ma affilato, ha dato ragione al mio istinto. Mentre cercavo di farle capire a gesti che ero innocuo e che non avevo nessuna intenzione di farle del male la guardavo. Non era una bambina e non ho mai capito se fosse semplicemente la bambina della radio cresciuta o se invece si trattasse di un’altra persona. A un certo punto ho smesso di chiedermelo. C’era qualcosa di bello e selvatico sotto il viso rovinato dal freddo, sotto i capelli sporchissimi e sotto i vestiti pesanti che le nascondevano le forme, o forse mi imponevo di credere che fosse bella solo perchè eravamo gli ultimi esseri umani e contemporaneamente i primi di una possibile alba di una nuova colonizzazione del pianeta da parte della mia specie. E se fosse andata sempre così, penso a volte, mentre guardo mio figlio, il primo bambino del mondo nuovo, e dormo accanto ad Hana? Se derivassimo da un ciclo infinito di estinzioni di massa e rinascite da due persone sole e disperate?

Conoscere l’inconoscibile. (Writing Challenge #1)

(“Conoscere l’inconoscibile” è il primo racconto della Writing Challenge che trovate QUI.  Il risultato finale non mi convince e soprattutto sul’ultima parte l’ho buttata più in vacca della fine di Lost, però mi sono divertita abbastanza a scriverlo e quindi sono contenta)

Per andare all’università da casa sua Penelope faceva tutte le mattine alla stessa ora la stessa stradina stretta e quasi deserta, costeggiata da palazzi di tre piani, quattro al massimo, che torreggiavano su di lei facendo sembrare la strada ancora più stretta di quanto non fosse. Quando non era in ritardo si soffermava ad osservarli: erano così disordinati e disarmonici nel complesso che le veniva da immaginare che qualcuno li avesse buttati ai lati della strada alla rinfusa piuttosto che costruirli secondo la rigida geometria che regolava tutto il resto della città. Anche la bizzarria, tuttavia, quando è ripetuta per un intervallo di tempo considerevole, finisce per diventare routine, a metà strada tra il noioso e il rassicurante (e Penelope in effetti li trovava noiosi o rassicuranti più o meno a giorni alterni, in base al suo umore). Era arrabbiata, la mattina in cui cambiò tutto, anche se non ricorda nemmeno perchè – probabilmente un alterco di poco conto con la ragazza con cui divideva la casa e l’affitto – e di conseguenza i soliti palazzi strambi assiepati ai lati della solita stradina semideserta come se ce li avesse messi un bambino intento nella costruzione di una città fatta di Lego piuttosto che architetti, geometri e muratori veri, le sembravano noiosi al limite dell’opprimente, simili alle sbarre di una cella in cui era costretta a marcire non proprio per il resto dei suoi giorni ma comunque per un intervallo di tempo relativamente lungo. 

Una variazione, un cambio di scenario, avrebbe dovuto esaltarla, e invece sulle prime il suo cervello derubricò il dettaglio discordante ai margini del suo campo visivo come un innocuo sfarfallio causato da un gatto di passaggio o forse addirittura da un granello di polvere. Dopo un altro paio di occhiate, però, non potè più ignorare quello che ormai era un fatto: c’era un’insegna nuova, c’era una porta nuova e c’era la vetrina di un negozio che sembrava praticamente spuntato fuori dal nulla. Anzi, no. Non un negozio: quando si fece coraggio e si decise ad alzare gli occhi, si accorse che ad essere spuntato dal nulla era un intero palazzo.

La faccenda era già abbastanza assurda – insomma, l’idea sul bambinetto che gioca con le costruzioni era solo un’idea, una metafora del cazzo per rendere più poetica una roba per niente poetica come l’abusivismo edilizio, e nel mondo reale i palazzi, anche nelle strade in cui sono costruiti un po’ a caso, non vengono costruiti in una notte, tra l’altro in  un punto in cui non ci sarebbe nemmeno spazio per costruirli – ma la cosa ancora più assurda era che quel palazzo e quel negozio non sembravano affatto nuovi.

L’insegna di legno era scura ed ammuffita, come se fosse sopravvissuta a stento prima ad un incendio e poi ad un’inondazione. Un tempo dovevano esserci anche delle lettere dorate stampate sopra, ma adesso ne restavano solo delle tracce: una T, tre quarti di una U. La vetrina, invece, era piena di polvere e ragnatele e in esposizione c’erano solo una bolla di vetro di quelle in cui si mettono i pesci rossi, vuota e scheggiata in più punti del bordo e un libro con la copertina che un tempo doveva essere stata rossa e adesso invece era di un colore a metà strada tra il rosa antico e il marrone e un sacco di pagine strappate. A voler essere precisi non si può nemmeno affermare con assoluta certezza che quelle due cose fossero effettivamente in esposizione: erano buttate ancora più alla rinfusa dei palazzi all’esterno sulla tavola di legno marcio e scuro, evidentemente sopravvissuto allo stesso incendio e alla stessa inondazione del legno dell’insegna, poggiata dietro al vetro che fungeva da pseudovetrina e divideva l’esterno del negozio dall’interno. 

Del resto del palazzo, poi, non c’è troppo da dire: era fatiscente e disabitato, i balconcini restavano attaccati al resto della struttura per miracolo, le finestre erano tutte chiuse e non c’era niente – nè vestiti appesi, nè fiori, nè tendine – che facesse pensare a tracce di presenza umana recente.

Un posto così avrebbe dovuto tenere alla larga chiunque, eppure Penelope, sebbene il suo cervello continuasse ad alternare tentativi di razionalizzazione e tentativi di negazione, se ne sentiva inspiegabilmente attratta. 

«C’è nessuno?» disse a voce più alta dei suoi standard, cercando di coprire il cigolio sinistro della porta d’ingresso, di sovrastarlo per riuscire ad ignorarlo, mentre infilava nello spiraglio, nel piccolo varco aperto tra l’interno e l’esterno, prima solo la testa e poi tutto il resto del corpo. 

Era buio e dall’esterno non sembrava arrivare nessuna luce, nonostante fossero appena le nove di un mattino non eccessivamente fosco. La cosa più fastidiosa, tuttavia, era la puzza di muffa e cose rancide che sembrava quasi trasformare l’aria stessa in qualcosa di viscoso e appiccicaticcio, contravvenendo alle leggi della fisica sugli stati della materia. Era immobile, intenta a cercare di capire precisamente di che odore si trattasse – aveva un naso così sensibile da sfidare spesso i suoi amici a riconoscere la marca di sigarette che fumavano dall’odore che impregnava i loro vestiti e vincere più della metà delle volte – quando il rumore della porta che le si era richiusa alle spalle senza preavviso e senza alcuna traccia del cigolio di quando era entrata, la strappò violentemente dalle sue elucubrazioni e la fece sussultare. 

«Stavo dormendo». Era una voce profonda, roca, forse appartenente ad un uomo di mezza età, vagamente burbera – comprensibile, considerando la seccatura del risveglio improvviso. Il buio, tuttavia, rendeva impossibile distinguere sia i dettagli dell’arredamento del negozio che la faccia o il corpo dell’uomo, tanto che Penelope si ritrovò addirittura a pensare per un attimo all’assurda possibilità che non ci fosse niente da vedere e che la voce maschile fosse l’unica caratteristica percepibile di un’entità incorporea. La luce bassa ed arancione che rischiarò l’ambiente meno di un minuto dopo, tuttavia, mise fine a quei pensieri, sebbene, considerando lo squallore di quello che vide, si ritrovò quasi a rimpiangerli: il pavimento, le assi delle pareti e quelle del soffitto avevano lo stesso aspetto a metà tra l’annerito e l’ammuffito dell’insegna e del ripiano della vetrina, il bancone invece era rivestito di un telo rosso che sembrava fatto del tessuto che si usa per i tavoli da poker, pieno di chiazze e bruciature di sigaretta. Sopra c’erano libri vecchi di almeno una ventina d’anni buttati alla rinfusa e cianfrusaglie bizzarre che presumibilmente avevano lo stesso valore dei regali che si trovano nelle confezioni di patatine o nelle uova di cioccolato. L’uomo era sbucato da una porta di un legno ancora più nero di quello del resto dell’arredamento e se l’era richiusa subito alle spalle, impedendo a Penelope di intravedere anche solo un piccolo scorcio della stanza sul retro. Era piuttosto alto e molto magro, aveva almeno sessant’anni, forse settanta, la barba folta e grigia e i capelli di media lunghezza, acconciati in boccoli stretti che lo facevano sembrare simile alla caricatura di un rabbino. Le guance erano incavate, gli occhi neri, luminosi, intelligenti e magnetici, le mani piene di anelli d’argento abbastanza vistosi e i vestiti ricercati, da cosplayer del protagonista di un romanzo steampunk. Decidere se sembrasse più affascinante o più inquietante era impossibile e anzi, probabilmente era proprio la sottile inquietudine che incuteva nel prossimo a renderlo ancora più affascinante e magnetico. Il suo modo di muoversi ricordava ora quello di un grosso puma durante una battuta di caccia, ora quello di un gatto domestico grasso e viziato che passa il tempo a lisciarsi il pelo e a tratti tutte e due le cose insieme. Per quanto tempo rimase a fissare Penelope, a studiarla quasi come se la vivisezionasse con lo sguardo? A lei sembrarono minuti interminabili, forse furono ore, forse invece solo pochi decimi di secondo. 

In ogni caso parlò di nuovo dopo un bel po’ di tempo.

«Vuoi comprare qualcosa, ragazzina.»

«Non sono una ragazzina e – Perchè non suona come una domanda?»

«Perchè in effetti non lo è. Se sei entrata vuol dire che vuoi comprare qualcosa»

«Che teoria del cazzo. Stesso manuale del perfetto venditore dei commessi di LUSH?» borbottò Penelope tra sè, strappando all’uomo, che nonostante tutto doveva averla sentita, un’occhiata che oscillava tra il perplesso e il sottilmente divertito. «E comunque» continuò lei a voce più alta, cercando di ostentare noncuranza e sicurezza di sè «non ho capito che cosa vende. Non sembra nemmeno un negozio»

«Vendo un sacco di cose. Sintetizzando potremmo dire che vendo la conoscenza dell’ignoto»

Penelope non sapeva se ridere o sentirsi presa in giro ed arrabbiarsi, ma qualcosa nel tono dell’uomo, nonostante il risolino sottile che continuava ad increspargli in modo appena percettibile le labbra sotto alla barba, la indusse a trattenersi: era serio, molto serio. 

«É una metafora banale per dire che vende dei libri e che studiando e leggendo si può “conoscere l’ignoto”?» finì per dire, soffermandosi con la voce sulle ultime parole e mimando le virgolette con due dita della mano sinistra, affusolate, con le unghie mangiucchiate e lo smalto nero sbeccato. Ostentare sicurezza le veniva un po’ meno bene rispetto a prima e la smorfia stranita che l’insieme delle rughe sulla fronte e della piega delle labbra disegnavano sulla sua faccia la tradiva.

«Diciamo che offro un programma di apprendimento molto più rapido. Puoi decidere a tuo piacimento se quella che vendo sia scienza, pedagogia, magia, filosofia, una maledizione, un dono. Facciamo il pacchetto completo? Facciamo il pacchetto completo, mi sembri il tipo giusto» disse l’uomo, gesticolando come farebbe un sarto per prendere le misure con un metro invisibile. 

Lei per un po’ non rispose, limitandosi a fissarlo con aria basita, attonita. Alla fine decise di limitarsi ad un’alzata di spalle prima di girare i tacchi e uscire in fretta da lì senza nemmeno salutare quell’uomo che il suo cervello iperrealista aveva catalogato senza appello come un fuori di testa che probabilmente avrebbe avuto bisogno di cure, psicofarmaci o qualcosa del genere. Percorse il resto della strada quasi correndo, senza girarsi per accertarsi che il negozio da cui era appena uscita fosse ancora lì o che l’uomo non l’avesse seguita e quando si lasciò alle spalle la strada stessa per sbucare nel viale luminoso e trafficato lungo il quale si trovava la sede principale della sua facoltà – Filosofia – aveva archiviato quasi completamente quella strana esperienza. Peccato che meno di qualche secondo dopo, nel momento esatto in cui un altro essere umano – un ragazzo che trovava da sempre piuttosto carino e al quale però non aveva mai avuto il coraggio di parlare sul serio, per la precisione – entrò nel suo campo visivo, si rese conto che qualsiasi cosa fosse successa nel negozio era molto di più di una strana esperienza come tante, una di quelle da raccontare per rendersi interessante alle feste e poi dimenticare dopo un po’: accanto alla testa del ragazzo era comparso un pannello bidimensionale sospeso nel vuoto, simile alla finestra di una chat proiettata a mezz’aria come un ologramma non prodotto da nessun congegno visibile. Il pannello, azzurrino e luminoso, era completamente ricoperto di scritte e numeri: alcune erano fisse, altre cambiavano rapidamente, si aggiornavano come se qualcuno di invisibile stesse scrivendoci su qualcosa. Penelope, che era miope e non portava nè occhiali, nè lenti a contatto, perchè rimandava continuamente la visita dall’oculista, dovette stringere gli occhi per riuscire a capire che cosa diamine fossero quelle scritte e quei numeri. “Quella ragazza mi sta fissando. Non è la prima volta che mi fissa. E’ goffa e stramba. Mi mette ansia…Mi sta ancora fissando, stavolta è proprio –” diceva il testo che continuava a scorrere, uno stream of consciousness in diretta. Penelope arretrò di mezzo passo e agitò la testa come se tentasse di svegliarsi a forza da un sogno vivido e molesto, poi però la curiosità la spinse ad avvicinarsi di nuovo di mezzo passo al ragazzo al quale a questo punto stava di fatto bloccando il passaggio dall’altra parte del marciapiede, per leggere le scritte fisse e i numeri. “Emanuele Sannazzaro. (15/07/1991; 21/01/2004)…” e poi continuava, come se fosse la pagina su Wikipedia di un qualsiasi personaggio storico. Penelope stava per aprire bocca e dire qualcosa, non sapeva bene nemmeno lei cosa, quando sul pannello olografico comparve una specie di pop-up sovrapposto alle scritte. Diceva: “L’account full-knowledge non può essere condiviso con altri. Ogni violazione comporterà la terminazione immediata sia del trasgressore che della persona con cui è stato condiviso l’account stesso o informazioni derivate da esso”. Non aveva capito bene cosa ci fosse scritto davvero, ma quel “terminazione immediata” in grassetto, unito all’improvvisa consapevolezza che qualunque cosa avesse detto avrebbe indotto chiunque a catalogarla come pazza, la indusse a tacere e spostarsi di lato, lasciando passare il ragazzo che, infastidito, le blaterava contro qualcosa che non si era nemmeno data la pena di sentire. Si guardò intorno con aria smarrita, senza riuscire a processare esattamente nè cosa fosse successo, nè come si sentisse a riguardo. Fu sopraffatta dalla realizzazione che il pannello olografico del ragazzo – Emanuele Sannazzaro – non era l’unico: ce n’era uno accanto ad ogni persona che entrava nel suo campo visivo, conosciuti e sconosciuti, ed erano fatti tutti allo stesso modo, con lo stream of consciousness dei pensieri in diretta e la biografia passata, presente e futura, morte inclusa e pop-up con termini, condizioni d’uso e minacce di terminazione che compariva ogni volta che provava anche solo a commentare ad alta voce da sola quello che leggeva. 

Quando si guardò alle spalle, cercando con lo sguardo l’imbocco della stradina dei palazzi assiepati e del negozio strano, la stradina che conosceva a memoria – negozio a parte, fu assalita dall’ennesima consapevolezza terrificante: c’era solo un vicolo cieco con palazzi grigi, uguali a tutti gli altri e un cassonetto troppo pieno di immondizia, nessun negozio, nessun palazzo strambo, nessuno sbocco dall’altro lato. A quel punto, abbandonato anche l’ultimo barlume di autocontrollo, la disperazione cieca ebbe la meglio, inducendola ad iniziare prima ad urlare cose come «Riprenditelo. Riprenditelo il tuo pacchetto di merda, non l’ho nemmeno pagato, non te l’ho chiesto!» sotto lo sguardo indignato e/o impietosito dei passanti, e poi a picchiettarsi la fronte e gli occhi, che teneva chiusi, serrati, cercando sia di non guardare i pannelli olografici che di trattenere (invano) le lacrime.

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Dopo un tempo che sembrò interminabile come il tempo che aveva impiegato l’uomo del negozio per studiarla, si rese conto di avere qualcosa tra le mani, un filo che terminava con un pezzo di metallo circolare. Anche l’odore era cambiato rispetto a quello della strada di prima, e dopo qualche secondo si rese conto che non si sentivano più i rumori del traffico o il chiacchiericcio dei passanti ma solo un ronzio basso interrotto solo di tanto in tanto da bip ritmici. Aprì gli occhi, ancora arrossati da tutte le lacrime che aveva versato, e si rese conto che quello che aveva tra le mani era il filo di un elettrodo e che lo aveva appena strappato dalla sua fronte inavvertitamente. Aveva altri elettrodi su tutto il corpo, era distesa su un lettino da ospedale, era seminuda a parte uno di quei vestitini di carta velina da sala operatoria, e intorno a lei non c’erano palazzi e persone ma macchinari della cui funzione non aveva la minima idea. Un vetro la separava da un’altra stanza, e nell’altra stanza c’era un uomo girato di spalle, intento a scrivere qualcosa al computer. Quando si alzò in piedi, sbuffando, lo riconobbe: era l’uomo del negozio, anche se al posto dei vestiti da cosplayer steampunk indossava un camice da medico. Aprì la porta scorrevole che separava la sua stanza da quella in cui si trovava Penelope e la guardò scuotendo la testa con un’aria a metà strada tra il deluso e il distrutto. 

«Ho impiegato tutta la vita per questa ricerca e non è servito a niente. Tu eri l’ultima tester e l’hai trovato addirittura terrificante, anche se avevi dichiarato che – cito testualmente – “É l’incertezza, il non sapere quello a cui andrai incontro o a cui andrà incontro l’intero genere umano, a farti paura”. Ti ho dato la possibilità di sapere tutto, letteralmente tutto, e non ti ha rassicurata, ti ha terrorizzata ancora di più di quanto ti terrorizzasse prima l’incertezza stessa. Gli altri, quelli che sono venuti prima di te, pensavano che conoscere tutto gli avrebbe dato potere e poi hanno finito per trovarlo noioso e deprimente e…»

Di questo monologo drammatico da scienziato costretto a confrontarsi col fallimento, Penelope sentì meno della metà, intenta com’era a cercare di realizzare dove si trovasse, a ricordarsi perchè o semplicemente a ritrovare la facoltà di muovere il suo corpo intorpidito. A quel punto, tuttavia anche l’incertezza su dove si trovasse, in quale secolo, in quale luogo e perchè le sembrava quasi paradossalmente rassicurante. 

 

Scrivere (riflessioni sparse e una writing challenge)

Ultimamente faccio un sacco di fatica con la scrittura. Avevo un sacco di post in programma, avevo deciso gli argomenti e la scaletta dei contenuti ma ogni volta che provavo a mettermi al pc per scrivere ero assalita da un senso di frustrazione e ansia e mi ritrovavo a fissare lo schermo sperando in un’illuminazione che non arrivava mai o – più spesso – ad arrendermi e mettermi a cazzeggiare dopo cinque secondi. Ho sofferto molto, ho riflettuto, ho combattuto interminabili battaglie di overthinking nella e con la mia testa, ho pensato spesso di mollare e non scrivere mai più niente che dovesse o potesse essere letto da altri. Poi, dopo un po’, ho capito che il problema erano le aspettative, mie ed altrui, e l’immagine di me stessa che, anche per via della permanenza lunghissima in un certo tipo di filter bubble, si era venuta a creare e mi ero creata.

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Negli ultimi dieci anni ho scritto o avuto la pretesa di scrivere theory più o meno densa e complessa e un po’ di autofiction che però era comunque condita da riflessioni teoriche ipercritiche da overthinker compulsiva quale purtroppo ancora sono. Bello, ma non è (più, o forse non è mai stata) la mia cup of tea, sia perchè ci sono altr_ che lo fanno e lo sanno fare molto meglio di me che, soprattutto, perchè voglio tornare a quando scrivere mi faceva stare bene e la theory non mi fa stare bene e al di là dell’appagamento momentaneo nel momento della pubblicazione del pezzo mi ha portata solo ad una spirale di autocommiserazione, overthinking e aspettative troppo alte e per questo continuamente disattese. Come se non bastasse, il networking non vale tutto l’investimento emotivo e di tempo che costa starci dietro e dal punto di vista economico non solo non ho visto un centesimo, nonostante le collaborazioni con webzine anche mediamente note, ma spesso ci ho pure rimesso.

Per tutti questi motivi ho deciso di portare a termine gli impegni che ho già preso (di cui saprete a tempo debito) e poi, almeno per un po’ di tempo, provare a scrivere altro. Ho autoprodotto (con l’aiuto di un post trovato su Pinterest che non taggo perchè non riesco a ritrovarlo) una lista di temi per dei raccontini a cui mi dedicherò nei mesi a venire come se fosse una specie di writing challenge (e se le writing challenge vi sembrano una cosa scema pensate al fatto che anche “Frankenstein” di Mary Shelley è nato da una writing challenge!). Di seguito c’è la lista, è assolutamente open source e se vi piace l’idea potete partecipare anche voi alla challenge, modificarla, farla a metà o inventarne di nuove, nella speranza che aiuti anche altr_ a ritrovare l’ispirazione e magari anche ad ingannare un po’ il tempo in questo strana e confusissima piccola apocalisse in slow-motion in cui ci troviamo a vivere nelle ultime settimane.

La lista: 

  1. Lo sconosciuto (come concetto)
  2. Creare un mito sull’origine della vita
  3. Uno strano processo
  4. Un sogno che hai fatto
  5. Il te stesso ideale
  6. Un incontro tra due divinità
  7. Crea la tua creatura sovrannaturale
  8. Inventa una storia su una superstizione
  9. Descrivi un nuovo pianeta
  10. Un’epifania
  11. Una canzone legata a un ricordo
  12. Un testo che pubblicizzi una cosa brutta
  13. Qualcuno perde qualcosa di importante
  14. Scrivi una lettera ad un tuo personaggio
  15. Scrivi a te stesso una lettera inviata da un tuo personaggio
  16. Descrivi una festa
  17. Inventa una storia partendo da un meme a tua scelta
  18. Scrivi di una volta che hai avuto torto
  19. Racconta un innamoramento
  20. Inventa un personaggio famoso. Come lo è diventato?
  21. Racconta una rivolta
  22. Cosa significa per te “destino”?
  23. Inventa una città con elementi fantasy. Descrivila.
  24. Come sarà il posto in cui vivi in un ipotetico futuro? Descrivilo.
  25. Crea una razza aliena
  26. Descrivi un’invenzione fantastica (oggetto magico o artefatto sci-fi)
  27. Parla di una società segreta (reale o inventata)
  28. Uno spettacolo teatrale finito male
  29. Rivisita una leggenda metropolitana
  30. Un personaggio storico a tua scelta si ritrova nel presente
  31. Un’apocalisse
  32. La fine di una storia d’amore
  33. Una famiglia in quarantena
  34. Un fantasma. Come è morto e perchè è un fantasma?
  35. Una maledizione.

Note e regole: 

Io non mi dò particolari regole, non fatelo nemmeno voi se decidete di provare la challenge: deve essere una cosa che vi (ci) faccia ritrovare il piacere per la scrittura, non uno stress. Lunghezza a scelta, libertà di dare alle storie e agli argomenti il taglio che si preferisce, libertà di stravolgere o saltare dei temi. Mi farebbe piacere se in qualche modo poi mi fate leggere le vostre storie, se decidete di partecipare, ma se non vi va di condividerle e preferite tenerle per voi lo capisco più di quanto crediate. Intanto, spero di farvi leggere i miei primi a brevissimo.

My own private Introfada

Ho scoperto “Introfada” di Hamja Ashan circa un anno fa. Si chiamava ancora solo “Shy Radicals” (“Introfada” è il titolo italiano) e nella mia bolla non lo conosceva ancora nessuno o quasi. Non che io, del resto, abbia grandi meriti per la mia scoperta, che è stata del tutto randomica: una notte, come tante altre notti, non riuscivo a dormire e stavo cazzeggiando su Instagram. All’epoca ero in fissa con le fanzine autoprodotte americane e mi sono imbattuta, sempre in modo del tutto randomico, in un account che si chiama @adisorderedmind_zines, che raccoglie foto di fanzine autoprodotte e vendute su etsy sul tema della salute mentale (spoiler: ho in programma di avviare un progetto simile a breve, incrociate le dita per me!). Non ricordo se l’account di riferimento di Shy Radicals fosse tra i related o se fosse semplicemente citato in un qualche post, sta di fatto che ci ho cliccato su, ho lurkato un po’ e dopo pochi secondi senza nemmeno accorgermene ero già a cercare di procurarmi il libro prima e a leggerlo (nonostante all’epoca facessi ancora un sacco di fatica con le letture in inglese) poco dopo.

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All’epoca vivevo a Napoli da sei mesi e le mie speranze stupide e infantili di vedere improvvisamente la mia vita e soprattutto il livello delle mie relazioni e interazioni sociali migliorare grazie al trasferimento dal paesello di duemila abitanti alla Big City si stavano infrangendo contro una realtà molto diversa e molto crudele: quella della mia cazzo di ansia sociale che mi impediva (e mi avrebbe impedito nei mesi successivi, e in parte mi sta impedendo ancora adesso) di costruire legami significativi da un lato e distruggeva quelli che avevo dall’altro. Intanto le mie coinquiline dell’epoca organizzavano cene e pranzi invitando gente un giorno sì e l’altro pure e io combattevo con un misto di disagio che mi rendeva difficile e pesante addirittura attraversare lo spazio della cucina per arrivare in bagno dalla mia camera e senso di colpa derivato dal suddetto disagio.

Quando ho scoperto che “Shy Radicals” sarebbe stato tradotto in italiano col titolo di “Introfada” ero nel bel mezzo della ricerca di una nuova casa e ancora una volta credevo ingenuamente che sarebbe stato facile e bellissimo, che avrei trovato una stanza fica e dei coinquilini simpatici perchè sì. Ovviamente non è andata così: dopo due mesi di viaggi di due ore sotto al sole d’agosto in treni regionali scalcagnati, provini terribili in cui in circa mezz’ora di conversazione degli sconosciuti ti valutano non-si-sa-su-quali-basi per decidere se sei degno o meno di vivere con loro (o in casa loro, qualora a provinarti sia il landlord) e annessa ansia da prestazione, risposte vaghe del tipo “Ti faremo sapere” (spoiler: non ti fanno sapere mai), serate passate a spulciare i gruppi Facebook con gli annunci di affitti e/o a mandare a cagare tizi supercreepy dei gruppi Facebook con gli annunci di affitti ho accettato per disperazione la prima offerta di una stanza che sembrava simile ad una stanza vera a un prezzo più o meno accettabile. Le cose sono precipitate piuttosto rapidamente e sono precipitata anche io, crollando immancabilmente sotto i colpi del sovraccarico da interazioni continue ed eccessive con coinquiline estroverse e incapaci di capire le mie esigenze di introversa da un lato e dell’aumento vertiginoso della mia percentuale (già altina in partenza) di ansia sociale, con annessi attacchi di panico per strada mentre cerco di andare a compleanni a cui non andrò mai e fughe senza salutare nessuno da eventi non ancora iniziati dall’altro.

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Una delle mie (ormai ex) coinquiline estroverse, quando tentai di raccontarle degli attacchi di panico e dell’ansia sociale mi rispose qualcosa come “L’interazione con le persone è un motivo stupido per farsi venire l’ansia” con un overload di saccenza che in realtà, a pensarci a freddo, è una summa perfetta dei socialpensieri normie sul tema. Un’altra delle mie (ormai ex) coinquiline durante lo scazzo finale, quello di quando annunciai di volermene andare, mi disse che avrei dovuto interagire e parlare di più con lei e con le altre, come se non aver voglia (o non essere in grado) di interagire fosse una colpa, come se aver bisogno di tempo per sè perchè i contatti, le conversazioni e anche la semplice condivisione dello spazio del salotto ti tolgono le energie fosse qualcosa da correggere, come se aver scelto di prendere una casa in condivisione solo perchè (come gran parte degli studenti/precari nel tempo dell’ultracapitalismo) sei povera e non perchè “YEEEEE CHE BELLA LA CONDIVISIONE FACCIAMO TUTTO INSIEME AMICHE FOREVER” fosse una roba da stronza aliena (non che essere una stronza aliena mi dispiaccia, comunque, eh).

Insomma, la scoperta in inglese prima e l’uscita in italiano poi di “Introfada” sono accadute proprio (sincronicità junghiana?) nell’anno in cui la dittatura estroversa ha sferrato i suoi colpi contro di me nel modo più devastante di sempre e sapere di non essere sola nella lotta contro la necessità di essere socievole, di sorridere, di essere solare e tutte quelle altre cose false che si scrivono nei curriculum perchè altrimenti non ti prendono nemmeno a lavorare, è stato confortante.

Per capire quanto è stato confortante, perchè ci tenevo a parlare di questo libro qui nel blog e perchè sono contenta che se ne parli un sacco in giro, però, dobbiamo fare più di un passo indietro: dieci anni fa, quando iniziai a preoccuparmi troppo per il mio aspetto fisico, a litigare col mio corpo e a litigare col cibo che mangiavo al punto di rivomitarlo puntualmente, scrissi su uno dei miei vecchi blog ormai abortiti un post contro il francescanesimo e la dimessocrazia dei movimenti degli anni ’00 e nel giro di un paio d’anni (non per merito mio, sia chiaro) le cose sono cambiate e lo spazio dei movimenti – sia quello fisico che quello virtuale – è diventato un florilegio di feste, corpi in movimento, luccicanza e dintorni. Bello, bellissimo. Lo spazio virtuale dei media liberal, intanto, si è riempito di corpi difformi, corpi grassi come quello che sentivo di avere io, corpi bassi, corpi non-bianchi, facce stranette eccetera eccetera. Bello, bellissimo anche quello – totale assenza di critica politica e potenziale di narrazione di lotta a parte, s’intende.

E invece no. E invece bello, bellissimo un cazzo: anche la nuova rotta intrapresa sia dai movimenti che dai media liberal, la celebrazione del cosiddetto empowerment, il beyonceismo e tutto il resto ha mostrato ben presto, almeno per le persone come me – introverse, con ansia sociale e/o difficoltà di varia natura nell’interazione col prossimo – il lato oscuro. Perchè per stare nei movimenti devo per forza aver voglia di ballare di continuo? Perchè non ci si inventa una modalità di interazione che faccia sentire a proprio agio i poveri stronzi che cercano di sforzarsi di parlare per tutta l’assemblea e quando finalmente ce la fanno parlare non ha più senso perchè si è passati all’argomento successivo? Perchè la maggior parte delle narrazioni sulla sex positivity è la celebrazione di un libertinaggio che sì, bello in teoria ma in pratica per noi introversi, ansiosi e insicuri è un incubo? Perchè (e viene proprio da chiederselo leggendo alcuni passaggi di “Shy Radicals” in cui si celebra il valore delle strade silenziose) se non riesci a stare nella festa, se ti piace il silenzio, se non ti piace il libertinaggio, allora devi necessariamente essere un fan del decoro di merda? Perchè esistono le sentinelle in piedi (silenziose) da un lato e l_ compagn_ del famoso striscione (che mi piace pure, beninteso) “La violenza sta in silenzio, l’amore fa rumore” dall’altro? Non può esistere una terza via, una lotta a misura di introversi, un amore silenzioso a misura di insicuri, una rappresentazione mediatica che non sia “o sei bella, o sei sicura di sè e se non sei nessuna delle due cose ti attacchi”? É colpa del capitalismo e del patriarcato se ci sentiamo insicuri e a disagio nell’interazione con gli altri? Probabile, ma fino a quando non ci liberiamo del capitalismo e del patriarcato che facciamo? Stiamo male, ci autofustighiamo condannandoci ad eventi sociali in cui ci sentiamo a disagio e fuori luogo?

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Il libro non risponde a nessuna di queste domande, ma la speranza è che parlarne aiuti quanta più gente possibile a farsele.

Ci sarebbe ancora molto da dire sul tema (per esempio parlare di nerd, incel e otaku e della narrazione che riguarda queste tre categorie), e forse lo farò più avanti. Intanto, lascio un paio di suggerimenti di lettura per allargare il dibattito e dare altri punti di vista: “Potere ai timidi” (Not) e “Guida all’Introfada” (il Tascabile).